A corpo libero. Il lavoro di Silvia Gribaudi

Come faccio a non parlare ancora di Silvia Gribaudi?  Avevo già scritto di lei, geniale coreografa e perfomer,  l’estate scorsa, quando avevo partecipato a un suo seminario per donne over 60.

L’ho rincontrata anche quest’anno, sempre invitata dal Cross Festival, il bel festival di arti performative qui sul lago Maggiore.

Prima l’ho incontrata alla casa di riposo di Verbania, dove ha affascinato un pubblico dove le giovani eravamo io, Patti e qualche infermiera. Li ha entusiasmati in crescendo, parlando del corpo, del suo, del loro, del nostro. Delle trasformazioni di questo corpo con cui dobbiamo convivere e da cui abbiamo il dovere di trarre tutto il piacere possibile, nel movimento, nei contatti, nella libertà di espressione. Ha invitato gli ospiti su sedia rotelle a saltare, ma saltare dentro. E loro l’hanno fatto.

Poi ancora l’ho vista in azione in una quattro giorni entusiasmante, in cui ha insegnato  (ma no, non insegnato, stimolato, guidato, presentato) a un gruppo di donne, ormai innamorate, una danza scorretta fatta di movimenti corretti, di espressioni esagerate, di figure tratte dal nostro gestuale quotidiano, di geniali richiami ad un sano egoismo (perché IO…, no vabbé, perché IO…).

Ci ha mostrato come far danzare pancia, seni, avambracci, facendoci un vanto di movimenti della carne che si conquistano solo con l’età, un po’ come le rughe (e il parallelo con la famosa frase di Anna Magnani, lei sì che aveva capito tutto, sorge spontaneo).

Mi rendo conto che è difficile immaginarla senza averla vista in azione. Le parole non sono abbastanza adeguate a descrivere la mobilità di quella sua faccia bella e buffa, dell’elasticità di quel suo corpo da danzatrice oversize, di quel messaggio trasmesso su più piani, che arriva a tutte, proprio a tutte, anche a quelle che avresti detto (prima) ‘no, questa no, questa non ci sta’.

In giro per Cannobio, ha girato tra i tavolini dei turisti all’aperitivo con il suo corpo libero (come dice il titolo della sua prima performance in questo ambito di ricerca).

Con lo spettacolo MyPlace si è clonata e triplicata, nella regia attenta del lavoro di tre brave attrici (Francesca Albanese, Silvia Baldini, Laura Valli). Riporto la sinossi, racconta bene.

My place. La casa, luogo privilegiato dell’intimo, proiezione di sé e della propria nima, di desideri e sogni di conflitti e di paure. Le attrici raccontano quel luogo con poche parole, quadri visivi, corpi in movimento. In scena tre corpi nudi – o meglio in biancheria intima – volutamente messi in evidenza: masse corporee vive e non censurate, vere, oneste e ben diverse da quelle che ancora oggi siamo abituati a vedere in mostra sui giornali, su Internet, in televisione. Tre donne non più giovani ma non ancora vecchie, certamente non perfette. Ma belle. Perché autentiche. E disposte, in uno show surreale, a offrirsi al pubblico per quelle che sono, corpi senza casa né spazio, sfrattate dal proprio io, lanciate a inseguire, divorare e moltiplicare le proprie ombre. Con passo leggero e sguardo ironico e tragicomico sul femminile.

In uno dei suoi incontri-seminari ho portato anche la mia amica Silvia, un altra Silvia, che ha apprezzato, come immaginavo, ma, soprattutto, che nel suo lavoro di artista (questo il suo sito) crea opere in notevole sintonia con questa lettura del quotidiano femminile.

Questo il  sito di Silvia Gribaudi, che dice molto, ma forse non tutto, del suo lavoro.

Qui una sua intervista per Freeda, dove racconta anche come da ‘ballerina a norma’ è diventata performer a tutto tondo – notare il raffinato gioco di parole 😉

Beh, alla fine, il mio consiglio è: se la vedete in giro, e capita abbastanza spesso, non perdetevela.

Foto, quasi tutte (quelle belle), di Paolo Sacchi.