La nonna Clelia

Mi è ricapitato in mano il libretto che zia Carla, la zia di Paolo, oggi nonna di 8 nipoti, ha scritto e illustrato con amore sulla storia di sua nonna Clelia. L’ha dedicato ai suoi fratelli e ne ha regalato una copia, rilegata a mano, anche a noi nipoti.

Ci sono aneddoti, ricordi, note da un diario. E’ un lavoro prezioso e affettuoso, importante per tutta la famiglia, anche per me che sono una nipote acquisita,  ma molto legata a tutta questa allegra e numerosa tribù.

Ecco allora, tratta da alcuni brani del libretto, la storia della bisnonna, per Paolo, e della trisnonna, per i miei figli.

Storia della nonna Clelia

L’infanzia

“C’era un grande albergo a Milano, in piazza della Repubblica, che si chiamava Albergo Italia. Oggi non c’è più. Apparteneva al padre di mia nonna, Luigi Poletti. Partito da Vignone, sopra Intra, quando era molto giovane e povero ‘con le scarpe in spalla’ per non consumarle, era andato a lavorare a Londra come cameriere. Era molto sveglio, intelligente e onesto. Diventò presto socio del suo padrone e dopo alcuni anni tornò in Italia. Aveva guadagnato un bel po’ di soldi.

Era ormai un ricco signore, ma senza nessuna boria, dato che sposò una sua guardarobiera e continuò con lei a lavorare sodo. Ebbero tre figli: Carlotta, Vittorio e Clelia, mia nonna. L’Albergo Italia è stata la casa di mia nonna, che passava le sue giornate nelle stanze dove c’erano enormi armadi guardaroba, pieni di lenzuola candide e profumate; nel vapore della stanza da stiro, a contatto con le varie camerierine e con le guardarobiere, che portavano le loro figlie a giocare con le figlie dei padroni. Insieme, spiavano da lontano la vita che si svolgeva nelle sale dell’albergo, con la sua clientela dall’aria importante.

Questo avveniva ai piani alti, le stanze dove si era liberi di giocare, in uno scambio vivace di parlate lombarde, ma dove era obbligatorio impegnarsi ad aiutare, sotto la guida di una madre severa e molto impegnata nella conduzione dell’albergo. Le sale di rappresentanza e le camere degli ospiti erano invece assolutamente interdette ai giochi. Vi si accedeva rararamente e solo ben vestite, come si conveniva alle figlie del direttore. L’essere cresciuta in questo doppio ambiente ha senz’altro dato a mia nonna un’apertura mentale non comune per l’epoca. Ha sempre parlato in milanese, ma andava a scuola alle Marcelline e leggeva molto, specialmente libri in francese.

La famiglia

Clelia aveva circa 19 anni quando suo padre venne a sapere che un giovane venticinquenne, figlio di suoi conoscenti benestanti e di sua fiducia, desiderava sposarsi. Si trattava di Luigi Sacchi, mio nonno. I matrimoni allora si combinavano attraverso le conoscenze tra famiglie, non era un caso eccezionale. I genitori condussero i rispettivi figli in piazza del Duomo, una domenica pomeriggio. Le due carrozze si fermarono vicine e vennero fatte le presentazioni. Poi la sera, venne chiesto a mia nonna se il giovanotto le fosse piaciuto e se lei fosse disposta a sposarlo. A lei andava bene.

A 33 anni mio nonno si ammalò di broncopolmonite e morì rapidamente, lasciando nelle peste mia nonna, a 27 anni con tre figli, il più grande dei quali, mio padre Gaspare, aveva 7 anni; poi c’erano Carla e Luigi, detto Gino. Penso però che afferrare nelle sue mani e guidare fermamente la sua pesante famiglia da sola non le dispiacque per niente. Suo marito aveva un negozio di articoli sportivi in via Torino. La nonna prese in mano l’azienda e la fece prosperare, diventando presto socia, grazie a un prestito concesso al momento opportuno, della Legnano Biciclette. Fu allora che nonna Clelia cominciò a fare i conti, e li faceva bene.

Il tenore di vita della famiglia era alto, mia nonna aveva molte amicizie, e riceveva un giorno fisso alla settimana. D’inverno avevano l’abitudine di andare per lunghi periodi in Liguria, per evitare la stagione troppo rigida milanese. In  Liguria la zia Carla incontrò due sue compagne di scuola, mia mamma e mia zia Camilla, e le presentò a mio papà, in licenza dal fronte durante la prima Guerra Mondiale. Era il 1917. Fu così che mia mamma e mio papà si fidanzarono.

Tragici lutti

Non so esattamente in quale anno, ma non molto tempo dopo la morte del nonno Luigi, un avvocato che seguiva la nonna nei suoi affari cominciò a corteggiarla. L’avvocato Lino Barbetta era molto innamorato di lei e forse anche un po’ interessato alla sua solida posizione finanziaria. Per molti anni la nonna lo tenne in sospeso, poi si arrese e lo sposò.

Mia nonna ebbe diversi lutti tragici nella sua vita. Perse il fratello ancora giovane. Suo figlio minore, Gino, morì di meningite a 14  anni. La sua adorata figlia Carla morì di parto insieme alla neonata. Pochi anni dopo morì anche l’avvocato Barbetta. La nonna superò questi lutti sempre con  coraggio e forza. Quando mia mamma me ne parlava, aveva sempre un tono un po’ critico: pur ammettendo la sua forza d’animo, faceva balenare il sospetto di poca sensibilità o freddezza.

Io non lo penso. Credo piuttosto che avesse una gran voglia di vivere, di andare avanti, di reagire. Era salda, la nonna Clelia, ricca di una forza interiore e di una buona salute mentale, senza fragilità, forse dovuta a un’infanzia felice. Non si autocompiangeva mai, anche quando ne avrebbe avuto motivo. C’è anche da dire che il marito Lino Barbetta era molto rigido e non le permetteva di dimostrare in pubblico il suo dolore, anche fra parenti stretti. Quando vedeva la moglie triste o assente, la fissava con i suoi occhi di ghiaccio e la costringeva a controllarsi.

La vita tra Milano e il lago Maggiore

Le ultime due perdite, la figlia e il marito, la segnarono molto. Si attaccò moltissimo ai nipotini, che seguì molto affettuosamente per tutta la vita. Grazie alle sue possibilità, ma anche con grande intelligenza, si organizzò una vita interessante. Si spostava spesso tra il lago Maggiore, la Liguria, le terme. A Milano aveva una grande casa, in via Revere, dove viveva con la cuoca (‘la’ Linda), la cameriera (‘la’ Gina) e l’autista  (‘il’ Bruno). Aveva il palco alla Scala, sempre lo stesso (‘il me desdott’ – il mio 18) e andava al cinema spessissimo. Il mercoledì riceveva a casa, e mia mamma doveva essere sempre presente, cosa che in parte le faceva piacere, in parte sentiva come obbligo. Io la accompagnavo e dovevo stare molto buona. ‘Quièta, sta quièta’, diceva la nonna, e io andavo in cucina a vedere i vassoi che stava preparando Linda.

Ricordo l’atmosfera della camera da letto di mia nonna, un leggero profumo di cipria, la toilette ricoperta dal pizzo bianco, con lo specchio di argento ovale basculante, la dormeuse dove la nonna faceva il pisolino pomeridiano, cosa che mi sembrava un segno di grande ricchezza.

Nel mese di giugno la nonna si trasferiva a Ronco, vicino a Verbania, dove rimaneva di solito  fino al 2 novembre, giorno dei morti. Ogni pomeriggio alle 5, con qualsiasi tempo, c’era alla porta la carrozza (fino agli anni ’20), poi la 514 (mia nonna la chiamava, in milanese, la Cincentquatordes). L’autista accompagnava la nonna a prendere il tè a Gignese, o al Bolongaro di Pallanza, oppure a trovare sua sorella Carlotta a Vignone. Le visite che ricordo di più sono quelle al cimitero di San Martino di Vignone. Mentre la nonna pregava, io giravo per quel piccolo cimitero tranquillo e molto bello. Andavo a cercare le tombe dei bambini morti piccoli, che si trovavano tutte attorno alla cappella centrale, con le sue eleganti arcate e il tetto a beole.

Nel suo ‘studio’ a Ronco, una camera tutta rivestita di boiserie, la nonna Clelia teneva chiuse in un armadio a muro, coperto da una pesante tenda di velluto verde dipinta con disegni a pastorelle, la scorta delle merende, tavolette di cioccolata e goloserie varie, che distribuiva personalmente ai nipoti ogni pomeriggio. Ricordo lo scandalo di quando mio fratello e mio cugino rubarono tutta la scorta delle merende: a me fece l’impressione di un sacrilegio e mi meravigliava vedere che i grandi ne sorridevano come di una ragazzata.

Ricordo le giornate di pioggia, interminabili e un tempo molto frequenti, che passavo con mia nonna e mia mamma nel ‘verandino’, una piccola stanza tutta a vetri, posta sul retro della casa, molto luminosa anche nelle giornate più buie. Mia nonna lavorava eternamente a maglia e mia mamma ricamava. Io imparavo a lavorare all’uncinetto, che tenevo in una piccola scatola da lavoro di paglia. Ascoltavo le signore chiacchierare e parlavo molto poco. Invece fischiettavo spesso e apparentemente nonna Clelia non approvava, chiamandomi ‘maschiaccio’. In realtà, credo non le dispiacesse del tutto, come pure apprezzava la mia abilità nel fare giravolte aggrappata a un ferro che si trovava appena fuori dal cancelletto del giardino.

Guerra e dopoguerra

Vennero poi gli anni della guerra. Mio papà aveva predisposto le cose in modo da scappare da Milano e rifugiarci in una piccola casa a San Colombano al Lambro, paese dei suoi nonni, dove suo padre era stato medico condotto. La nonna Clelia stava invece da una sua cugina, sempre a San Colombano. In quel periodo difficile tutti erano cambiati, mio papà e mia mamma erano sempre tesi e preoccupati, ma la nonna era serena e del solito umore, conservando la sua aria un po’ regale. Non ricordo che si lamentasse, neanche quando la sua casa di Milano fu distrutta, insieme ad altre sue proprietà. Credo che mia nonna ci fosse molto vicina in quel periodo, ma io non la percepivo come ‘nonna’, nel senso che io do oggi a questa parola, specialmente adesso che vivo questo ruolo in modo intenso. La sentivo come la madre di mio padre.

Alla fine della guerra, la casa di via Revere fu ricostruita e divisa in due parti. Mia nonna e Linda occupavano una metà e noi l’altra. In quegli anni, quindi, ho avuto con lei rapporti più stretti. Era simpatica, sapeva raccontare bene, era di idee aperte e diceva di essere sempre stata socialista, con una grande ammirazione per Turati. Parlava un bellissimo milanese, da Carlo Porta, mai volgare, che mi ha lasciato in eredità, insieme a qualche gioiello. I gioielli li ho persi, ma il milanese no. Da anziana la nonna non era bella, ma era gradevole a vedersi e sempre profumata. Aveva una morbida pappagorgia e delle mani piccole e paffute. E’ morta a 82 anni e gli ultimi due mesi li ha trascorsi a letto. Mi ricordo che sembrava una bambina, ma era serena e non si lamentava mai.

Nonna Clelia non era una persona affettuosa. Il bacio era di rito all’arrivo e al commiato, ma non era certo un bisogno dell’anima. Però io percepivo la sua gioia nel vedermi arrivare da lei e, soprattutto, nell’uscire in mia compagnia.  Scrivendo di lei (e in me è ancora molto viva) mi accorgo che non è facile capire veramente la sua essenza. Ai suoi tempi l’apparire agli occhi degli altri, il formalismo, il galateo, la riservatezza erano così forti da annullare la spontaneità delle persone: lei era una donna dei suoi tempi, anche se certamente con un piede dentro il futuro.”

 

 

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