Nelli

Nelli è stata una donna coraggiosa, una mamma e una nonna fantastica.  Ci ha lasciato a gennaio, molto molto anziana: a quanti anni non si può dire, perché non l’ha mai voluto confessare, vezzosa fino all’ultimo, anche sulla lapide non ha voluto mettere la data di nascita.

Ecco la sua storia come l’ha raccontata a un’amica che l’ha intervistata per il libro collettivoSopra il tavolo della cucina“, edizioni Interlinea. La pubblichiamo oggi, a 40 anni dal colpo di stato in Argentina, che molta parte ha avuto nella vita di Nelli.

Sono Nelli. Sono nata in Argentina da genitori lombardi: mia nonna Santina e la mia bisnonna allevavano bachi da seta a Vigevano. Con mio marito eravamo vicini di casa, ma ci siamo conosciuti a un ballo di carnevale: c’era l’orchestra Di Sarli, che suonava balli popolari argentini, quelli che si ballano uno distante dall’altro, con la ragazza con il fazzoletto in mano, come la “chacarera”, e l’orchestra di Tacho Stella che suonava valzer viennesi. Il tango no, non si usava; magari l’orchestra Di Sarli suonava melodie di tango, ma non si ballava come si è abituati a vederlo adesso.

Siamo stati fidanzati un anno e, come era allora abitudine, non ci vedevamo mai da soli. Se uscivo in auto con mio padre e il mio fidanzato, mio padre faceva sedere mio fratello fra di noi. Mi sono sposata il 29 luglio e, anche se in Argentina quella data cade d’inverno, era una giornata bellissima, primaverile. Abbiamo avuto una splendida festa di matrimonio, il ricevimento lo facemmo a casa dei miei genitori e una gran pasticceria di Buenos Aires allestì tutto il rinfresco. La festa è durata fino alle quattro del mattino. Poi i miei padrini, i miei zii, ci portarono all’Hotel Italia a Buenos Aires, perché eravamo tanti italiani, la colonia era grandissima. Lì restammo una settimana, a fare grandi passeggiate, a visitare i laghi artificiali nei dintorni.

Ricordo i primi 15 anni di matrimonio come un periodo molto bello: c’era molta armonia fra di noi, mio marito era una persona rispettosa e molto affettuosa; purtroppo amava anche il gioco, e questo è stato un problema, però faceva il sarto ed era un gran lavoratore. Abbiamo avuto tre maschi e volevamo anche una bambina: ho pianto quando anche all’ultimo parto è nato un maschio, ma in realtà sono stata fortunata con i figli. L’ultimo, che avrei voluto femmina, è molto affettuoso con me. Più tardi sono anche venuta a sapere che il nonno di mio marito, di origini friulane, aveva avuto 11 maschi e solo la dodicesima era femmina, sicché potete immaginare…

Ho partorito il primo figlio a casa, ma poi non ho più voluto, perché sono finita nelle mani di un’ostetrica, cugina di mia mamma, che mi assistette malissimo e mi lasciò a soffrire 3 giorni. Dopo, incontrandomi per la strada mi disse: “Non so come sei ancora viva!” In seguito le levarono anche la targa di ostetrica dal cancello, tanto era incapace. Ho avuto gli altri due figli in clinica, ben assistita, anche se il secondo è nato col forcipe. La clinica era privata, a pagamento, comunque in Argentina, dagli anni ’50 in poi, era normale partorire in ospedale o in clinica. In quegli anni il mio era un Paese sviluppato, moderno e molto ricco: c’era di tutto, petrolio, bestiame, agricoltura, senza la guerra e le conseguenze della guerra, come in Europa e in Italia. La guerra lascia sempre tante conseguenze: anche ora si parla delle persone ammazzate come se fossero mosche, senza pensare al dolore di chi resta.

Ho scelto per il primo il nome di uno zio appena morto perché mia nonna ci teneva e al secondo ho dato anche il nome del padre, ma per il terzo ho scelto il nome di un famoso poeta argentino, Ruben Darìo, perché mi piaceva tanto. Dopo il parto non mi sono mai sentita sola o giù di morale, perché mia madre mi ha aiutato tanto. Abbiamo vissuto con i miei genitori finché il primo figlio ha avuto otto anni: erano anni molto belli, anche mio padre mi aiutava dopo essere andato in pensione. Quando poi siamo andati a vivere da soli, loro hanno comunque continuato ad aiutarci, per esempio venivano a tenere i bambini.

Anch’io ho lavorato tanto, ho corso tanto, ho viaggiato tanto, ma sempre con entusiasmo, senza sentirmi in obbligo. Sì, posso dire che ho veramente corso tanto. Avevo quattro uomini in casa, portavo a mezzogiorno da mangiare a mio marito e poi ho assistito mia nonna e una zia che vivevano sole, prendevo l’autobus alle 6 del mattino per andare a casa loro. In seguito ho curato i miei nipoti, quando le mie nuore lavoravano.

Poi la vita, o meglio la politica, ci hanno riportato nella terra dei nostri antenati. Mio marito non manifestò mai il desiderio di tornare in Italia, ma nella seconda metà degli anni ’70 i giovani sparivano, mio figlio tornava ogni giorno dall’università e mi diceva ‘oggi è sparito quello, oggi è sparito l’altro’. Parliamo di 40 000 giovani, i più intelligenti, che i militari hanno fatto sparire, li drogavano e li gettavano dagli aerei in mezzo al mare, qui in Italia si sapeva perché molti erano figli di italiani, però tutti si cucirono la bocca.

Vennero anche a casa mia nel ’77 e ci rimasero per 5 ore, ad aspettare mio figlio. Avevano fucili e mitragliette e uno di loro era nordamericano. Immaginate che colpo è stato, che momenti ho vissuto… Mio figlio non viveva più con noi perché era già sposato, però giusto quel giorno stava venendo in auto a casa nostra con mio marito, la sua bambina di un anno e l’altro mio figlio, per visitare mia madre moribonda. In auto mio marito gli disse: “Ma quel tuo amico quando mi ripara l’orologio?” e così decisero di andare da questi amici, per via dell’orologio, e poi la signora li invitò a fermarsi per cena. Guarda come è la vita, il destino ci ha salvati!

Poi per tre anni sono rimasti nascosti finché nel 1980 sono riusciti a scappare in nave e a venire in Italia, con due bambini, una di 4 anni e uno di 8 mesi. In seguito, dopo di loro, poco alla volta siamo arrivati tutti. Io e mio marito siamo arrivati nell’87. Erano sette anni che non vedevo mio figlio e i miei nipoti. In Italia mi sono integrata bene, si vede che è venuta fuori la mia parte italiana, a me d’altronde era sempre piaciuta la musica italiana. Anche se sono tornata più volte in Argentina a trovare amici e parenti, mi sono lasciata la vecchia vita alle spalle. Qui sono felice con la mia famiglia, i miei figli, le mie nuore che sono bravissime e i miei nipoti, perchè l’importante è il presente, è saper ricominciare e non coltivare rancore.

Sono arrivata alla vecchiaia e dentro mi sento felice. In verità, io non mi sento vecchia e mi sembra di avere sempre 40 anni. Penso che per essere felici in questa vita bisogna saper perdonare, perdonare e ancora perdonare, perché la vita è lunga e corta nello stesso tempo, succedono cose inaspettate, ma bisogna saper perdonare e alla fine si ottiene la ricompensa: ecco perché alla mia età mi sento felice.

 

La foto di copertina è di Paolo Sacchi.