Passare i vestiti, affetto e rispetto

Gabriella ha raccontato un suo ricordo, che ne ha avviati altri miei, di quando i miei figli e i loro cugini erano piccoli. Passare i vestiti da un bambino più grande a un altro più piccolo (fratelli, cugini, amici, a volte anche amici di amici) non ha solo la valenza del risparmio. I valori che contiene questo gesto sono tanti: il rispetto per un bene e per chi lo produce, il riciclo contrario a ogni spreco, l’affetto tra le persone, la gioia di vedere continuare la vita a un oggetto a cui si è voluto bene anche perché indossato da una persona amata.

Nel ricordo c’è anche la mamma di Gabriella e la sua abilità creativa con la macchina da cucire, un oggetto di lavoro, ma anche di libertà, presente in ogni casa quando ero ragazzina. Veramente, quasi in ogni casa: nella mia no (ma in quella delle mie nonne sì), ed è per questo che una macchina da cucire è stato il regalo che ho chiesto per i miei 21 anni.

Ecco dunque il breve racconto, così come si fa tra amiche, intorno a un tavolo della cucina, a bere il caffè.

L’abito rosso

Quando ero bambina, quindi mezzo secolo fa, si usava passare i vestiti dalle cugine grandi a quelle nate dopo, e poi a quelle nate dopo ancora. E così succedeva a noi. Essendo io la prima nipote dei nonni, quindi la più “vecchia”, non avevo abiti da ereditare. Ecco però che la Provvidenza mi aveva donato come “cugina” la Lucia che era figlia della Miranda e di Remo, amici dei miei genitori.  Mentre io ero uno scricciolo, magrina magrina, lei, che aveva cinque anni più di me, era un fior di ragazza, con tutte le curve al posto giusto.

Arriva Natale, io avrò avuto 11 o 12 anni, e mi regalano un suo vestito rosso. Di maglina, tagliato in vita, con sei bottoni d’oro sul davanti, due bottoni ai polsini e un collettino che ingentiliva il tutto (me lo vedo ancora davanti…). Unico problema: era di tre taglie in più! Mancavano pochi giorni alla festa comandata, un vestito “nuovo” era doveroso almeno a Natale e la sarta non poteva fare in tempo per le necessarie modifiche.

Nessun problema per mia mamma! Con la sua Singer fece cuciture interne ai fianchi, alle maniche, alle spalle e all’orlo (senza tagliare nulla perché sarebbe servito per la futura crescita… doveva durare!). Avevo così il mio vestito nuovo (anche se un po’ scomodo…), lavato e ben stirato faceva la sua bella figura. L’ho portato per alcuni anni: mamma rifaceva le cuciture puntualmente e io indossavo il mio abito rosso.

Si usava così e si faceva così, non ci si vergognava di essere poveri, lo facevamo tutti. Penso fosse una consuetudine di tutte le famiglie. Mia sorella, che ha quattro anni meno di me, ed è anche molto più sottile di me, non ha mai voluto indossare l’abito rosso, ma gonne, golfini e cappotti, scarpe e stivali erano un patrimonio da condividere fra tutto il parentado.

 

Qui un altro racconto di Gabriella, mentre qui ci parla di una grande maestra del quilt, Margaret Fabrizio.

Qui un altro bel ricordo di affettuoso riciclo.

Qui la recensione di un libro di Bianca Pitzorno, il Sogno della macchina da cucire, sulla storia di una sartina dei primi del Novecento.