Bianca Pitzorno è una delle autrici di libri per ragazzi che apprezzo di più. Certo non sono la sola ad apprezzarla, ma io posso dire di aver cominciato moltissimi anni fa, quando i miei bambini erano piccoli e poi, ancora prima, quando una mia amica aveva illustrato un paio di suoi libri (qui stiamo parlando degli anni Settanta, preistoria…).
Mi è sempre piaciuto il suo anticonformismo, che infrange gli schemi e arruffa i ruoli (maschio/femmina, ma anche mamma/figlia), che parla di cacca e di sesso a voce alta e con il sorriso, che racconta personaggi sfaccettati e quadridimensionali anche quando sono i protagonisti di una favola. E poi mi è sempre piaciuto il suo schierarsi sempre dalla parte giusta, che è anche la mia: la parte dei più deboli e indifesi, e quella delle donne, bambine, ragazze o adulte che siano (e spesso queste parti coincidono).
Ho letto i suoi libri ai miei figli, che di sono divertiti seguendo le vicende di Lavinia (L’incredibile storia di Lavinia), di Aglaia (La casa sull’albero), di Emilia (Streghetta mia), di Colomba (Tornatràs).
Non solo per ragazzi e ragazze
Più di recente ho letto anche alcuni suoi libri ‘per grandi’, che non perdono però la semplicità della scrittura e la linearità della narrazione, anche all’interno di una giocosità libera nell’andamento logico e cronologico. Le bambine dell’Avana non hanno paura di niente racconta, con l’esperienza di Bianca a Cuba, la storia dell’isola nell’arco di duecento anni attraverso le reali biografie di tre donne molto diverse, Mercedes, Renée e Soledad. La vita sessuale dei nostri antenati (spiegata a mia cugina Lauretta che vul credersi nata per partenogenesi) è invece un grande affresco familiare che mostra i grandi cambiamenti avvenuti nel corso degli anni rispetto alle convenzioni sociali.
Il sogno della macchina da cucire
Qualche tempo fa decisi di leggere dei libri di Carolina Invernizio, per capire che cosa potesse aver attirato diverse generazioni di donne nelle opere della capostipite dei romanzi rosa all’italiana. Ricordo che era una trilogia, trovata nella biblioteca di mia zia (che peraltro amava leggere cose di tutt’altro genere). Mi imposi di arrivare in fondo, ma feci una gran fatica. Tra sartine, gentiluomini, cuori infranti, donne e onori perduti, soldati, figli illegittimi, morti derelitte e così via stavo leggendo di un mondo senza scampo, profondamente ingiusto, ma privo di rabbia (quella veniva a me) e di volontà di reazione. Un mondo dato per scontato, così era e così sempre sarebbe stato. Che fastidio.
Anche il libro Il sogno della macchina da cucire di Bianca Pitzorno tratta di questo mondo, brodo di coltura dei feuilleton più classici, ambientato in una non specificata città della provincia italiana nei primi anni del secolo scorso. La protagonista è appunto una sartina cresciuta dalla nonna che le ha insegnato il mestiere: il resto della famiglia è stato sterminato dal colera in una delle epidemie della fine del XIX secolo.
Dalla parte di tutte le donne
Ma se l’ambiente è lo stesso, molto diverso è il taglio. Il punto di vista di Bianca, interpretato in forma di racconto in prima persona, è dalla parte delle donne che lottano, all’interno di una società maschilista, rigida e apparentemente immutabile, per conquistare una propria autonomia e la libertà di decidere per sé, dalla parte delle donne che con enormi difficoltà hanno portato, passo dopo passo, agli innegabili progressi (nonostante tutto…) della società attuale.
Che sia un romanzo d’appendice assolutamente sui generis lo si evince da subito, nelle pagine destinate alle dediche: oltre che alle donne della sua vita legate al mondo del cucito, la scrittrice dedica il libro alla memoria
di tutte le sartine odierne del Terzo Mondo che cuciono per noi gli stracci alla moda che paghiamo pochi euro nei grandi magazzini di abbigliamento a basso costo – ciascuna sempre lo stesso pezzo tagliato da altri, come alla catena di montaggio – per quattordici ore, con i pannoloni per non perdere tempo ad andare in bagno, e che dopo aver ricevuto una paga da fame muoiono bruciate nelle loro enormi fabbriche-carcere. Cucire è un’attività creativa e bellissima, ma non così, NON COSI’.
I ricordi della nonna
Lo spunto del libro sul ‘tempo delle sartine a giornata’ arriva a Bianca da due parti: da un lato la passione per il cucito, dall’altro i ricordi della sua vera nonna, che aveva anche conservato lettere e cartoline di una vita. A questo la scrittrice ha aggiunto un attento lavoro di ricerca sui giornali dell’epoca, che riportavano avvenimenti storici, eventi delittuosi e cronache delle famiglie in vista.
Il sogno della macchina da cucire del titolo è per la protagonista un sogno che si realizza. Un’amica ricca le regala una macchina da cucire portatile a manovella che diventa il suo bene più prezioso: le permette di fare più in fretta e con meno fatica il suo lavoro, ma soprattutto diventa un vero strumento di libertà, autonomia e creatività che le permette anche gesti di solidarietà verso le altre donne. Parlo del valore della macchina da cucire come strumento di libertà anche in questo post.
Storie incrociate
Accanto alla storia della protagonista se ne dipanano altre, tutte di donne, tutte emblematiche. Quella della nonna, prima di tutto, che cresce da sola una bimba piccola e lavora, lavora, lavora, cucendo a mano (la macchina da cucire per lei non era nemmeno un sogno) ettari di biancheria e anche capi d’abbigliamento, a casa delle proprie clienti, come sartina a giornata, appunto.
Quindi la storia della signorina Ester, che lascia senza rimpianti un marito molto amato che sembrava ricambiarla appassionatamente, ma che tra la sua sopravvivenza e quella di un erede avrebbe scelto quest’ultima. O quella della straniera, Miss Lily Rose, americana, libera, ricca e generosa e perciò sfruttata da amanti e domestiche. Quella della famiglia (madre, zia e due ragazze) schiava di un marito ricco ma avarissimo. Quella della povera Ofelia, raccontata dalla nonna come monito, che lasciata sola a difendersi da un padrone violentatore, diventa lei la colpevole e non può che sopravvivere, e poi morire, facendo la prostituta. D’altra parte era una cosa normale nelle famiglie bene che le giovani domestiche fossero a disposizione degli uomini di casa, e ribellarsi era una colpa.
Una società maschilista e classista
La storia che più coinvolge direttamente la protagonista è quella della stiratrice che muore di tisi (un classico, ma era veramente letale allora) e lascia un’orfana, Assuntina, che la nostra sartina decide di tenere con sé, evitandole l’orfanotrofio, memore dei sacrifici fatti dalla nonna per lei. E poi tante altre storie di personaggi comprimari, soprattutto femminili, donne vittime di una società maschilista e fortemente classista appoggiata innanzitutto dalle istituzioni. La società descritta è dei primi anni del secolo scorso, ma bisognerà di gran lunga superare il secondo dopoguerra per vedere qualche cambiamento del ruolo delle donne nella famiglia e un affermarsi del potere dei sindacati. D’altra parte, come sappiamo, episodi violenza e di sopraffazione in famiglia e sul lavoro sono ancora oggi all’ordine del giorno in Italia, senza parlare del resto del mondo.
Rossella l’ho subito acquistato e non vedo l’ora di leggerlo! Cercavo un libro che mi facesse compagnia e ho la sensazione che questo possa essere quello che mi ci voleva. Grazie!
ma che bello! e che veloce nelle decisioni, Nema! spero proprio che ti piaccia.
Grazie Ross, la tua recensione non lascia scampo!
Mi sento coinvolta, ovviamente, nel discorso, ma anche commossa e moralmente obbligata a leggere il libro.
Bellissima recensione veramente!
grazie, maria francesca, mi hai fatto venire in mente che un ottimo link interno al blog può essere quello al post sul tuo laboratorio, lo aggiungo subito. bellissima cosa aiutare le fragilità con il cucito!