Io non mi chiamo Miriam – Una storia svedese

Avevo questo libro nel mio Kindle già da un po’, ma più invecchio più sono restia a leggere libri che mi fanno soffrire. E sapevo per certo che Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson, giornalista e scrittrice svedese, per le tematiche che affronta mi avrebbe fatto decisamente soffrire. Ma alla fine mi sono decisa, e meno male: da quando ho cominciato non sono riuscita a smettere di leggere, fino alla fine.

Deportata, profuga, svedese

La storia è quella di Miriam, una donna che ha conservato un segreto per tutta la vita, nascondendo la verità sul suo passato anche alla sua famiglia: a suo marito prima di tutto, poi al figlio e alla nipote.

Ma il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno,  il dono di un bracciale di artigianato zingaro le fa sfuggire la verità, pronunciando le parole del titolo, Io non mi chiamo Miriam, e decide quindi di rivelare alla nipote Camilla ciò che aveva tenuto per sé per oltre sessant’anni.

Il vero nome di Miriam è infatti Malika. La giovanissima Malika, come buona parte del popolo rom che viveva nei paesi occupati dai nazisti, è stata internata in campo di concentramento: ha vissuto la separazione dalla sua famiglia, la morte immediata della piccola cugina Anushka e quella lenta dell’amato fratellino Didi, vittima degli esperimenti del dottor Mengele.

Durante il tragico viaggio di trasferimento in treno verso Auschwitz, la sua divisa di prigioniera si strappa e, per non incorrere in punizioni,  Malika indossa l’abito di una giovane ebrea di nome Miriam, morta poco prima sul suo stesso vagone, e ne assume l’identità. Paradossalmente, fingersi ebrea le salva la vita: riesce a sfuggire all’eccidio dei rom nel Zigeunerlager di Auschwitz, viene aiutata da altre prigioniere, riesce a sopravvivere fino alla fine della guerra, quando viene accolta come rifugiata in Svezia.

Ma il prezzo da pagare è rinnegare le sue origini e la sua gente, celando la verità per sempre, in ogni occasione: con le compagne di prigionia, nei centri di accoglienza svedesi, con la sua protettrice Hanna, con il fratello di questa, il vedovo Olof, di cui si innamora e che sposa, diventando anche l’amorevole madre adottiva, riamatissima, del piccolo Thomas.

Anche un Paese considerato democratico e civile come la Svezia opera infatti delle differenze tra i profughi e decide di non accogliere i rom, rifiutandoli e respingendoli alle frontiere. Molti sono stati gli episodi di aggressione ed emarginazione di famiglie rom, bambini compresi, da parte di svedesi: questo nel dopoguerra, ma anche in seguito, durante tutto il secolo scorso (nel 2014 il governo svedese ha chiesto ufficialmente scusa). Quindi a Malika/Miriam non resta che continuare a mentire, per avere stabilità, pace, sicurezza economica, una famiglia, pur dovendo necessariamente dimenticare la sua.

D’altra parte, anche solo parlare degli orrori dei campi è una cosa che viene scoraggiata in tutta la società svedese:  come negli altri paesi europei, un po’ non ci si crede fino in fondo (“non può essere possibile…”), un po’ si vuole solo ricominciare e dimenticare, anche a costo di rinunciare alla conoscenza storica.

I rom, un popolo perseguitato

dr.Ritter e anziana donna Rom
Immagine dall’Archivio Nazionale Tedesco del medico dott. Richter con un’anziana donna rom (1936).

Ma, in ogni caso, i rom sono i più negletti, i dimenticati tra i dimenticati, un intero popolo che non ha diritto alla pietà e alla solidarietà. E questo nonostante siano stati protagonisti, ce lo racconta anche Axelsson nel libro, di una delle pagine più coraggiose della resistenza antitedesca, riuscendo anche se per poco a sconfiggere i nazisti in una storica ed epica battaglia all’interno del campo di concentramento di Auschwitz.

Anche in Italia spesso ci si dimentica della persecuzione dei rom, che cominciò nel 1940, alcuni anni dopo le leggi razziali. Rastrellati, internati in diversi campi di detenzione della penisola, utilizzati per piazzare le mine per fermare gli alleati, deportati nei campi di concentramento nazisti. Molti di loro lottarono nella Resistenza partigiana. Ma di loro si parla pochissimo ancora oggi.

L’autrice di Io non mi chiamo Miriam porta alla luce la sofferenza dei rom, raccontandola attraverso i ricordi di Malika/Miriam. Lo fa in chiave romanzata, ma operando un’attenta opera di ricostruzione storica, grazie alla quale tiene a bada le emozioni della protagonista (e anche di noi lettori) e fornisce alla narrazione un carattere di universalità. Lungo tutto il racconto si percepisce la paura del futuro di una giovane donna sola al mondo, costretta a soffocare il dolore, ma determinata a sopravvivere, anche quando “si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l’intero secolo.”

Sì, questo libro mi ha fatto soffrire, ma mi ha dato anche la possibilità di gettare uno sguardo su una realtà storica che non avevo considerato. E la continua alternanza temporale permette di abbandonare l’angoscia della vita del campo e apprezzare, per esempio, le bellissime descrizioni della Svezia del dopoguerra e scorgere l’evoluzione di una società sempre più ricca e sicura (ma dove permangono problemi di vario genere), fino ai giorni nostri.

La semplicità della vita scandinava, l’emozione di Miriam di poter disporre di una cucina moderna con tutti gli elettrodomestici dei primi anni Cinquanta, la ricerca di un abbigliamento sobrio ma elegante (che contrasto con il ricordo della vergogna nel campo anche per il vestiario…), il cibo svedese. Che sensazione di appagamento nei primi tempi della nuova vita poter mangiare i cinnamon bun, le girandole alla cannella, insieme alle compagne in libera uscita e alle crocerossine: Miriam imparerà a preparare perfettamente, rigonfi e profumati, questi deliziosi dolci della tradizione svedese per suo marito e per tutta la famiglia, quasi un simbolo della sua perfetta integrazione.

Majgull Axelsson annota, ribaltando un comune sentire:
Una celebre citazione biblica dice “la verità vi renderà liberi”, ma nel caso di Malika ciò che l’ha resa libera è stato mentire, perché le ha fornito l’unica opportunità di inserirsi nella società svedese.
Due recensioni su storie di ragazzine ad Auschwitz in questo altro post.
Qui la scheda di Io non mi chiamo Miriam di Iperborea, bella casa editrice specializzata in letteratura scandinava.