Nove marzo duemilaventi

Difficile definire Mariangela Gualtieri, tutto sembra sempre riduttivo. E’ poetessa e scrittrice, è attrice e grande narratrice. Ha fondato nel 1983 il Teatro Valdoca, uno dei più importanti poli del teatro di ricerca italiano.

Mariangela è una persona che incanta, un’artista a tutto tondo. Quando scrive ci racconta di noi, dei nostri sentimenti, paure, emozioni. Quando recita arriva diretta all’anima, senza intermediazione.

Ho avuto il piacere di ascoltarla settembre scorso, all’interno di una sua performance nel festival del Teatro sull’Acqua. A Villa Ponti, ad Arona, ha recitato Bello mondo, un rito sonoro di ringraziamento alla vita, davvero magnifico. Un inno alla natura e alla parola, principale strumento di comunicazione dell’umanità. Qui vedete Mariangela in una foto rubata, difficile disturbare il flusso emotivo che ci arrivava.

Mariangela Gualtieri a Villa Ponti, Arona, 2019, Festival Teatro sull'Acqua

Mariangela Gualtieri vive, pensa, riflette e scrive. La sua prima poesia è stata per nonna Rosa, un’anziana donna che viveva con la sua famiglia e che lei amava molto, scomparsa a novant’anni. La sua parola ha cantato l’amore, la bellezza della natura, le arti, il visibile e l’invisibile, il rapporto con la madre e lo scambio dei ruoli, dai confini sempre più scoloriti con il passare dell’età. Il suo particolare diventa universale.

Come poteva non poetare su questo momento della nostra vita, così drammatico, così epocale. Ed ecco, di questi giorni, la poesia Nove marzo duemilaventi che, ancora una volta, parla di tutti noi, del nostro sbigottimento e della nostra meraviglia di fronte a una frenata obbligatoria.

Nove marzo duemilaventi

Questo ti voglio dire,
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.

Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.

E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.

Adesso siamo a casa.

È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.

È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.

Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.

Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.

Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.

A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.

Mariangela Gualtieri

 

Questo il link al sito del Teatro Valdoca.

La bella foto di copertina è di Melina Mulas, che ringrazio con affetto.