Un giorno, tanti anni fa, a Buenos Aires

Mia figlia Natalia è nata a Buenos Aires il 3 agosto di 1976. Il 24 marzo di quello stesso anno abbiamo avuto un golpe militare. I militari argentini hanno fatto scomparire 30.000 persone fra il 1976 e il 1984.

Sono stati anni difficili per tutti noi. Io e il mio ex marito facevamo attività politica in un piccolo partito appartenente alla IV Internazionale. Il mio nome di militante era Marcela, lui era Gabriel. Già prima del golpe vivevamo nella clandestinità. Le nostre famiglie non sapevano il nostro indirizzo e posso capire solo adesso quanto sia stato difficile per loro. Avevo 16 anni quando mi sono sposata ma nessuno, nemmeno mia sorella che era una militante anche lei, aveva visitato casa nostra.

Quei fatti adesso sono filtrati dal mio sguardo da adulta. Allora mi sembrava di fare le cose che dovevano essere fatte. Anche perché io pensavo che nei giorni seguenti sarebbe arrivata la revolucion e avremo costituito una nuova società giusta, avremo costruito el hombre nuevo, come diceva il Che.

Quando la dittatura è arrivata noi ancora pensavamo che le cose potessero cambiare. Sapevamo delle persone che scomparivano, ma credevamo che fossero prigioniere e che prima o poi sarebbero tornate. Un giorno ho aperto il giornale e ho visto la foto di mio cugino Pachi: lo avevano ucciso in uno scontro armato. Un altro giorno ho visto sua mamma, che poi è scomparsa, con un bambino in braccio. Sapevo che lei era una militante, per cui ci siamo solo guardate negli occhi, ma non ci siamo salutate. Adesso so che è stata gettata da un aereo con i voli della morte alcuni mesi dopo averla vista in quell’incrocio a Buenos Aires.

Questa era la situazione, ma noi continuavamo a fare attività politica, a distribuire il nostro giornale “ Voz Proletaria”, a fare delle riunioni, come se fosse possibile fermare l’odio e le armi con i ciclostilati. Mi sono chiesta tante volte perché abbiamo fatto rischiare i nostri cari, le nostre famiglie quando era ben poco quello che potevamo fare. Forse la risposta è che non sapevamo bene cosa stava accadendo e neanche della disparità delle forze.

Fatto sta che un giorno sono in metropolitana con Natalia in braccio. Ho con me una borsa con i pannolini e i numeri di “Voz proletaria“ nascosti sotto. All’uscita del metro vedo un posto di blocco militare. Le persone sono in fila, mostrano i documenti e i militari aprono le borse e gli zaini per controllare. Da una parte mettono quelli che non hanno i documenti e dall’altra ci sono due persone sdraiate per terra. Io sono in fila con Natalia in braccio e so che sta per arrivare il mio turno: sicuramente avrebbero trovato i giornali sotto i pannolini di cotone. Senza riflettere molto do un paio di pizzicotti a Natalia che inizia a piangere sconsolatamente. I militari mi guardano con fastidio. Dopo un po’, in un bagno di sudore, mi avvicino e chiedo il permesso di andare via, che il mio bebé non sta bene, che devo cambiarla. Uno di loro mi guarda con odio e mi dice di andare via di corsa, che non sopporta il pianto della bambina. Io sento le gambe che camminano veloci, da sole. Esco della metropolitana e dopo un po’ mi metto a piangere insieme a Nati. Una signora mi chiede se sto bene, se ho bisogno di aiuto.

Io cammino finché smettiamo di piangere tutte e due.

Fino a un po’ di tempo fa non ho dato molta importanza a questo ricordo, perché era quello che succedeva a molte persone ogni giorno e perché allora non mi permettevo di soffire per questo: chi ero io per soffrire per una stupidaggine del genere quando tante persone erano morte? Quando tante mamme, nonne, parenti sono vissuti solo per ritrovare i propri cari?

Ma adesso sono passati quaranta anni. Solo quando sono diventata nonna ho capito la portata di quell’episodio. Mi sono permessa di ricordare. E di provare la gioia di essere qui adesso.

 

Nella foto di copertina io e mio nipote Pablito alla mia mostra Identidad, sul lavoro delle nonne di Plaza de Mayo per la ricerca dei nipoti, al Museo del Vetro di Murano, 2016, foto di Paolo Sacchi.