Ucraina-Italia e ritorno

In questo difficile momento della Storia del nostro continente, anzi del nostro pianeta, ricordo due brevi interviste a lavoratrici provenienti dall’Ucraina che fanno parte della raccolta di testimonianze “Sopra il tavolo della cucina. Donne che intrecciano storie” che ho curato anni fa per l’associazione Terra di Confine, di Lesa.

Sono i racconti di Anna e di Luba, due donne ucraine venute a lavorare in Italia e che, probabilmente ma non lo so con certezza, sono tornate a vivere nel loro Paese, dopo aver contribuito per alcuni anni all’economia del nostro.

Già in questi racconti di diversi anni fa emergono tutte le problematiche alle radici della situazione attuale dell’Ucraina. Ascoltiamo le loro voci con attenzione.

Storia di Luba

Ho 41 anni e vengo dall’Ucraina. Sono partita il 6 marzo 2001: ricordo la data perché era proprio il giorno del compleanno di mio figlio Anatoli.  Ricordo come piangeva il mio bambino e come piangevamo tutti.  Aveva solo 13 anni : ora ne ha 20 e studia finanza per il Ministero, in una caserma in fondo alla  Russia.

Quando è nata mia figlia Natascia mio marito lavorava in Mongolia: quando l’ha vista per la prima volta aveva già 11 mesi. Quando sono partita lei aveva 17 anni. Era all’ultimo anno delle scuole superiori e voleva andare all’Università a studiare medicina: da noi c’è una prestigiosa università. Mio marito faceva il piastrellista a Mosca e io lavoravo come ingegnere: i nostri stipendi servivano solo per l’affitto e per il cibo, ma non bastavano per fare studiare nostra figlia. Così, decisi di andare a lavorare all’estero.

Avevo sentito in giro che si poteva andare in Germania e cercai di informarmi. Ma quando una parrocchia organizzò un viaggio in Israele per visitare Gerusalemme, io pensai: “Parto, quando arrivo mi nascondo e rimango là a lavorare”. Preparai i documenti, presi gli ultimi 50 dollari che avevamo, ma poi il viaggio non si fece; io persi i soldi e mio marito si arrabbiò molto. Girai allora per la città, informandomi nelle agenzie che organizzavano viaggi turistici. In due settimane era pronto tutto e partii per l’Italia, mentre mio marito restava a Mosca.

I figli rimasero a casa. Anatoli già cucinava, lavava, stirava, andava a scuola, poi andava dalla nonna a prendere il latte, il burro, la ricotta, il miele. Quello che potevo fare da qui era telefonare e mandare i soldi. Per fortuna c’erano i nostri genitori, perché spesso i ragazzi da soli possono perdersi.

A Roma ho lavorato in una casa di riposo privata; poi sono salita al nord per guadagnare di più e mio marito mi ha raggiunta. Noi siamo qua per lavorare, per permettere ai nostri figli di studiare. Ci auguriamo che la situazione del nostro Paese migliori, così possiamo tornare indietro alla nostra terra, dai nostri figli e dai nostri genitori. Stiamo costruendo una casa in Ucraina: abbiamo comperato il terreno e appena  possiamo andiamo là a costruire la nostra casa. Lavoriamo senza fermarci.

Da noi si studia più che in Italia. Io ho studiato a scuola la geografia dell’Italia: conoscevo Roma, la Sicilia, la Torre di Pisa. Invece qui nessuno sa dov’è l’Ucraina. Vorrei che i miei figli fossero liberi di venire in Italia a trovarci, vorrei che vedessero come sono belle le montagne e le isole del Lago Maggiore, e anche il San Carlone di Arona.

Io ho un carattere forte. Ho visto tante donne che soffrono e che piangono: io quando soffro divento cattiva, ma non piango. Soffro quando i miei figli mi chiamano e mi dicono che non stanno bene, che sono in ospedale, che non trovano casa. Allora io comincio a telefonare: quanto ho telefonato a mio figlio là in fondo alla Russia, a mia figlia a Leopoli, a mia mamma in campagna, ai miei suoceri…

I nostri genitori sono anziani, dobbiamo chiamarli spesso. Mio suocero non sta bene e mio marito si dice: “Noi stiamo qua a lavorare, a guadagnare, mentre mio papà è malato; dovremmo essere là a curarlo, a  portarlo all’ospedale.” Roman dice anche: “A primavera sono sei anni che sono qua e sto diventando grigio. Gli anni passano e arriva il momento che perdiamo i genitori.” Abbiamo comperato una videocamera e abbiamo ripreso i nostri parenti, le feste di Natale, le feste di famiglia, perché quando i nostri genitori non ci saranno più potremo rivederli e sentire le loro parole.

I nostri genitori ci hanno aiutato a crescere i figli: eravamo una famiglia grande, molto unita. Adesso ci incontriamo ancora per  Natale e per Pasqua, che da noi sono feste molto importanti; ci riuniamo tutti, accendiamo le candele, ceniamo insieme la vigilia. Noi siamo sempre tornati. Sempre.

 

Storia di Anna

Io vengo da Lviv, Leopoli in italiano, un’antica e bellissima città dell’Ucraina, proprio al centro dell’Europa. Ho due figli: Marta, che ha 23 anni, e Vladimir, che ne ha 19.

Ormai sono in Italia da sette anni. Ho deciso di partire perché mia figlia voleva studiare all’università. Ma era una scelta  molto costosa: mio marito guadagnava pochissimo e non potevamo pagare né l’università statale né quella privata. Ma noi volevamo che i ragazzi studiassero per trovare un buon lavoro e vivere meglio. Volevamo anche che fossero in grado di difendersi dai russi.

La Russia ci ha sempre trattato male. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non ci pagavano gli stipendi:  volevano dimostrare che non potevamo vivere senza la Russia. In paese parlavamo ucraino, ma in città, negli uffici, dovevamo parlare russo. Io da piccola non capivo perché dovevo imparare il russo, perché i documenti erano scritti in russo, anche la lingua dei film era il russo. Volevano strapparci la nostra nazionalità. Ma la Russia da sola, senza l’Ucraina, non ce la fa. Sono i nostri uomini che devono andare da loro a lavorare; i russi non sanno lavorare, sono abituati a comandare, mentre i nostri ucraini sono da sempre grandi lavoratori.

Loro dicono che la Russia è il nostro fratello maggiore: ma che fratello è che vuole solo prendere e non divide niente con noi? La nostra storia è lunga. I miei figli dicono che il nostro popolo è stato sempre dominato e sottomesso a qualcuno: Austria, Polonia, Russia… Speriamo che i nostri giovani si difendano; ci vuole tempo, però adesso possono parlare e possono studiare, se li aiutiamo.

Avevo sentito parlare del lavoro in Italia. Con una mia cugina ho cercato un’agenzia che organizzasse il viaggio: in pullman, con altre cinquanta donne, siamo partite per Napoli. Prima di arrivare è salita sul pullman una donna russa con un ragazzo italiano. La donna vendeva il lavoro: chiedeva a ciascuna il nome e l’età e li scriveva su un foglio. Poi, sul piazzale di una cittadina vicino a Napoli, ci chiamò a tre o quattro per volta: ad ogni gruppetto dava un indirizzo e i biglietti del treno per raggiungerlo. Io ero l’ultima. Mi hanno mandata in una villa privata ad Acerra dove viveva una coppia con una signora anziana da curare.

Io non  conoscevo l’italiano. Pensavo: come faccio a comunicare con questa signora? Non so la lingua, non so cosa devo fare da mangiare, se la signora mi dice “dammi il pane ” io non so cos’è. Ho studiato il dizionario italiano-ucraino tutte le sere e la notte fino alle tre, ma al mattino dopo non ricordavo più niente. Nella mia camera avevo appeso dei fogli con i nomi degli utensili di cucina, dei cibi, ecc. Scrivevo e studiavo, perché non volevo passare per stupida. Ma è stato faticoso e ho pianto molto.

Ho cambiato varie famiglie. Sono andata in Toscana dove ho raccolto olive, ho vendemmiato, ho portato la legna con i muli; ah quei muli! Ho lavorato dappertutto. Ho lavorato come muratore, ho verniciato finestre e persiane. Ho fatto di tutto.

Telefonavo a casa alla domenica, ma costava tanto e io parlavo così in fretta che addirittura mio marito non riusciva a rispondermi. Ma un giorno mi ha detto di tornare a casa perché mio figlio Vladimiro stava troppo male senza di me. Allora sono tornata e per un anno ho ripreso il mio lavoro in ospedale, ma guadagnavo troppo poco. Così, nel 2001 sono tornata in Italia e sono arrivata a Verbania. Mio marito mi ha raggiunta, ma lui stava ancora più male di me, era iniziata una depressione.

Adesso lavoriamo molto tutti e due: siamo custodi e ciascuno ha anche un altro lavoro. Lavoriamo qui, ma tutti i soldi li mandiamo in Ucraina per fare studiare i figli, per costruirci la casa. Abbiamo comperato un appartamento di 100 metri quadri: è stato un sacrificio per noi ma anche per i nostri figli. Vladimir dice sempre: “Non voglio soldi né altro: vorrei invece aprire la porta e vedere la mamma in cucina che mi prepara il borsc (la minestra).”

Mia figlia adesso vive a Kiev e ha un buon lavoro. Vladimir ha 19 anni: non è piccolo, ma è solo. Ogni due mesi vado da lui per due settimane: in questo modo controllo la casa, faccio andare lavatrici per due giorni, rilavo quello che lui ha lavato perché lava in qualche modo, stiro, metto tutto in ordine. E’ un grande sacrificio, ma lo faccio volentieri. Anzi, quando il primo giorno arrivo a Lviv penso sempre: “Tra due settimane devo tornare” e sto male.

Quando sono in Italia telefono a casa due volte al giorno, al mattino e alla sera, così, parlandoci, ci sentiamo più vicini. Quando io e mio marito andiamo a letto continuiamo a pensare ai nostri figli: se stanno bene, se sono coperti per il freddo, se hanno preso le medicine quando hanno mal di gola,…  Lasciare i ragazzi è stato un grande sacrificio anche per il nostro equilibrio mentale. Vivere in un paese straniero fa perdere la memoria e la tranquillità: si pensa solo a restituire i prestiti, ai figli che devono mangiare e vestirsi, ai parenti rimasti a casa.

Qui non abbiamo vita, solo lavoro. Ci manca la nostra terra e la nostra famiglia. Quando arrivo a casa, in Ucraina, anche il cielo mi sembra diverso. Dico a mio marito: “Guarda che belle le nostre nuvole”, ma lui ribatte che sono uguali a quelle dell’Italia. Io però sono convinta e insisto: “No, non sono uguali, sono un po’ diverse”.

 

Nel blog ci sono altre storie raccontate nel libro “Sopra il tavolo della cucina. Donne che raccontano storie”. Questa è la storia di Jasmina, fuggita dalla guerra civile in Bosnia. Questa invece è la storia di Rosa Miriam, che arriva  clandestina dalla terribile situazione di El Salvador. Questa è invece la storia di Nelli, emigrata dall’Argentina durante la dittatura.

 

foto di Yura Moskovchenko