All’indomani dalla bocciatura di alcuni referendum voluti da milioni di persone, che avrebbero costituito un vero passo avanti nella costruzione di un paese moderno, civile, solidale, mi trovo con molte (forse troppe!) riflessioni da fare sulla realtà italiana attuale.
La prima è inevitabilmente quella sul sempre più accentuato scollamento tra parlamento e paese reale. Molte conquiste sono state fatte nel corso degli ultimi decenni, certamente, ma la società è andata avanti molto più velocemente di qualsiasi processo legislativo ed è difficile immaginare gli attuali adolescenti, che vivono in modo inarrestabile una realtà globale sotto tutti i profili, diventare adulti e doversi adattare a regole fatte dai loro bisnonni.
Non tutto è da buttare, senza dubbio: i valori espressi dalla nostra Costituzione, con qualche aggiustamento linguistico e, in minor parte, concettuale, sono ancora apprezzabili e ci rendono giustamente orgogliosi. Quello che però si chiede al parlamento è soprattutto di ascoltare: ascoltare le richieste legittime di chi vuole diminuire la sofferenza, ascoltare le proposte di chi vuole combattere la criminalità, ascoltare chi si batte per l’accoglienza contro ogni disuguaglianza, e si potrebbe andare avanti a lungo.
Accanto all’ascolto un buon suggerimento è quello di copiare: se non piace la parola, il consiglio è quello di fare tesoro delle esperienze di altri paesi che prima di noi hanno affrontato problematiche analoghe e con cui, d’altra parte, da molti decenni abbiamo intrapreso un cammino comune. Dall’Europa non dobbiamo solo richiedere aiuti economici, ma dobbiamo affiancarci agli altri membri anche nei percorsi di civiltà e di giustizia sociale. Certo, non tutti i paesi europei costituiscono buoni esempi, e anche nei più avanzati ci sono problemi, lotte interne, cadute di stile. Però il meglio (e qui sto parlando soprattutto di conquiste sociali) lo possiamo e lo dobbiamo copiare!
Oltre che per la disillusione derivata dalla bocciatura dei referendum, dico queste cose perché un paio di sere fa mi è capitato di vedere un film su Raiplay ambintato in Francia e precisamente nella città di Brest, in Bretagna. Si tratta di “In mani sicure“, della regista franco-belga Jeanne Herry, e parla del tema dell’adozione.
Dall’inizio della storia la sensazione è quella di trovarsi, appunto, in mani sicure. Il titolo fa certamente riferimento alle sorti di Théo, il neonato protagonista del film, ma quello che emerge è che tutta la ‘filiera’ dell’adozione, dal momento del parto fino alla conclusione del tratto di storia umana raccontato dal film, sia in mani sicure: personale capace, che conosce bene il suo lavoro e che è supportato da una struttura organizzativa pubblica efficiente e realmente orientata alla cura e alla protezione, che cerca di evitare inutili intoppi burocratici e che accoglie le istanze di una società in rapida trasformazione.
Ecco alcuni punti che mi hanno suggerito la grande differenza con molte (certo non tutte!) situazioni italiane.
La giovane Clara (21 anni) si reca in un ospedale vicinissima al termine di gravidanza e dice subito che non vuole tenere il bambino. Le viene garantito immediatamente l’anonimato, è accudita nel migliore dei modi, tutto va bene. Rispettosa proposta del personale alla ragazza di farle tenere accanto il bambino almeno nel primo periodo: al suo rifiuto non ci sono insistenze né pressioni, ma, come dicevo, rispetto estremo per la sua non facile decisione.
L’assistente sociale comunale le fa un intervista che tutela al massimo la sua privacy e la sua scelta, le suggerisce delle soluzioni carine per lasciare un messaggio a suo figlio se un giorno vorrà sapere qualcosa delle sue origini, si mette a sua disposizione per tutto.
Dato che Clara ha due mesi per ripensarci, il bimbo viene affidato a un’assistente familiare, un uomo adulto non più giovane che si occupa di bambini e adolescenti in affido e preadozione: è un padre di famiglia ed è il suo lavoro, li accudisce e li segue a casa sua. Non è usuale vedere un uomo che di lavoro accoglie e cresce neonati, bravissimo e attento, di giorno e di notte: anche nel film, in ospedale c’è chi si stupisce.
Alla fine Théo viene adottato da Alice, una donna single: nella riunione nel gruppo variegato e attivissimo degli assistenti sociali (dove non manca qualche tensione) si parla di questa nuova norma di apertura alle famiglie monoparentali come di una felice conquista. E sì che Alice non ha una storia semplice: aveva avviato in coppia un processo di adozione, poi ha divorziato, poi è stata in psicoterapia. Ma si decide di darle lo stessso il bambino, senza preconcetti, considerando la situazione attuale e dandole una sconda chance.
Poi c’è l’osservazione del bambino, l’attenzione a tutti i suoi bisogni, il considerarlo dal momento della nascita una persona che capisce e comunica, il desiderio collettivo della sua felicità. Immagino ci sia chi dirà che anche in Italia ciò avviene, ma io sono convinta che tutto questo qui da noi non sia la norma. Troppi sono i fatti di cronaca che riportano vessazioni e accuse alle donne che decidono di abortire o di abbandonare il figlio, troppo sbrigativo certo personale, molti ancora i reparti che separano i neonati dalla cura costante della mamma o di un altro adulto, innumerevoli i preconcetti sui ruoli maschili nei rapporti con l’infanzia, latitante l’impegno di molte amministrazioni comunali, ecc. ecc.
Nonostante tutte le positività della situazione di Brest, il processo di adozione non è considerato facile e i problemi ci sono a ogni passo. Questo per dire che, anche nella società più inclusiva ed efficiente, gli ostacoli sono presenti, ma è più facile superarli, mentre in una società giudicante e disorganizzata quegli stessi ostacoli diventano montagne di dolore difficili da rimarginare.
Su questo argomento mi è tornato alla mente il film olandese “Girl“. La storia si svolge in una società che non stigmatizza, all’interno di una famiglia comprensiva e attenta. Tuttavia le vicende di Lara, ragazzina transgender MtF (cioè da maschio a femmina) che intende avviare un percorso chirurgico di transizione, hanno passaggi di grande difficoltà e drammaticità. Ma se ci immaginiamo la stessa storia ambientata all’interno di un clima sociale oppressivo o anche solo poco accogliente come in molte realtà italiane, capiamo come le difficoltà possano portare inevitabilmente a un epilogo tragico.
Quindi, referendum o no, leggi inclusive o meno (cosa possiamo dire anche dell’affossamento della legge Zan?), al di là dei giochi politici più forti anche delle coscienze, al di là anche delle emergenze sanitarie, ambientali, economiche, quello che penso è che non bisogna mai rinunciare, in tutti i modi possibili, a tendere verso una società dell’ “I care”, aperta e inclusiva, generosa e solidale.
E prima di tutto, perciò, mettiamo in primo piano l’educazione delle nuove generazioni: oggi siamo impegnati a combattere pregiudizi di ogni tipo, ma dobbiamo lavorare perché in futuro non si formino nemmeno.