Io di solito le parlo in italiano, ma quando voglio essere certa di farmi capire, magari nell’imminenza di un pericolo, le parlo in inglese. Però sono consapevole che quando mia nipote Jimi non vuole una cosa, proprio no, lei dice ‘nein’, in tedesco, mentre se dobbiamo lavarci le mani ormai in famiglia tutti diciamo xishou, in mandarino.
Imparare quattro lingue (inglese, italiano, tedesco, mandarino) fin da piccola è senz’altro una splendida opportunità, ormai non più così rara: il multilinguismo è una realtà sempre più diffusa perché le giovani generazioni viaggiano di più, nelle migrazioni più o meno forzate o negli spostamenti privilegiati di chi può scegliere dove vivere, lavorare, studiare. In ogni caso sono moltissimi i ragazzi e le ragazze che abitano lontano dal luogo di origine e le occasioni di incontro, di innamoramento, di metter su famiglia sono diventate sempre più colorate e multietniche.
Però ci si può chiedere anche quali siano gli aspetti negativi per i figli di questi incontri all’insegna della multietnicità. Un rischio può essere ad esempio la perdita di identità etnica, del senso di appartenenza a un popolo e a una cultura.
Sono andata a rivedere a questo proposito un articolo di pochi mesi fa su The Guardian, scritto da Ndéla Faye, una giovane giornalista finno-senegalese che vive a Londra. “No, ma veramente di dove sei?” si sente spesso chiedere. E come molti Third Culture Kids non sempre sa rispondere. La definizione Third Culture Kids (TCK) indica i bambini (e ovviamente poi gli adulti) che hanno trascorso una parte significativa della loro vita al di fuori della cultura dei loro genitori, provenienti da culture diverse (è il caso di Jimi).
Anche se l’aspetto di Ndéla è quello di un’africana, in realtà in Senegal non ci è mai vissuta e in Finlandia soltanto pochi anni da bambina; poi ha viaggiato molto, con i genitori e da sola, e ora vive nel Regno Unito. Quindi non si sente di appartenere profondamente a nessun luogo e a nessuna comunità. Però la sua riflessione va avanti e il senso di spaesamento (perfetta parola italiana…) lascia il posto a un altro sentimento: si ritiene fortunata ad aver avuto il privilegio di vivere tante culture.
Essere senza radici mi ha dato un senso di libertà. Sono grata per le esperienze che ho avuto, per la straordinaria opportunità di parlare varie lingue e conoscere molti paesi.
Sento di avere infinite possibilità per il futuro. Nella mia vita, a poco a poco, mi sono costruita un’identità che è formata da tanti pezzi, quelli migliori, che ho trovato, scelto e raccolto. Ovunque io vada sono io a scegliere chi voglio essere, ed è una bellissima sensazione.
Ndéla e Jimi non è che non appartengono a nessun mondo: in realtà appartengono a molti mondi. Questo significa che nella loro vita non saranno mai timorose o sospettose del diverso, razziste, xenofobe, intolleranti verso religioni o modi di vivere differenti. Sapranno cogliere il meglio da ogni fonte, perché non saranno obbligate a vivere, e magari a combattere, per una fede (religione, patria, etnia, famiglia) che altri hanno scelto per loro al momento della nascita. Sono esagerata se dico che possono essere i semi di un mondo migliore?
La foto di copertina è un bel collage di ritratti di bambini delle periferie della Londra multietnica scattati dal fotografo Gideon Mendel, tratto dall’articolo di Ndéla Faye.
Credo davvero che se coloro che “appartengono a molti mondi” saranno tanti potranno cambiare il destino dell’umanità. Forse potrebbero dare vigore all’idea che apparteniamo tutti allo stesso “popolo”. La specie umana!
Sono perfettamente d’accordo, Giovanna!