Seaspiracy: ho deciso di fidarmi

Seaspiracy è nato, costruito e rifinito per scioccare. E’ un lavoro ispirato dalla sensibilità, sostenuto dalla passione, realizzato con caparbietà. E’ frutto di una visione volutamente di parte, quando essere di parte non significa alterare la realtà, ma decidere come interpretarla. Il messaggio è radicale: non esiste al momento una pesca sostenibile, se si vuole tutelare gli oceani, e quindi noi stessi, bisogna ridurre drasticamente o eliminare il consumo di pesce. Un’azione che non convince molti. Ma esiste la sostenibilità quando il sistema è insostenibile alla radice? Questa è la profonda domanda che il film pone e la risposta dipende dal proprio e personale concetto di sostenibilità, da dove e perché si è disposti a tirare una riga e dire basta. Se ancora pensiamo che la questione non ci riguardi, o che l’impegno individuale non serva, andrebbe ricordato che quando non sarà più necessario un documentario per farcelo vedere, ma il disastro sarà sotto gli occhi di tutti, sarà troppo tardi.

Così si conclude l’articolo sul film documentario Seaspiracy de Il Manifesto. Ah, a proposito, in questi giorni il Manifesto compie 50 anni, sempre ‘dalla parte del torto’, come recitava un azzeccatissimo slogan di qualche anno fa. E io me lo ricordo quando è nato, perché sono abbastanza vecchia da essere allora già adolescente e interessata a quello che succedeva intorno a me. Ma me lo ricordo anche perché mia cugina Carla, che allora viveva a casa mia, con me e i miei genitori, ha partecipato alla sua fondazione, insieme al nucleo storico Rossanda-Magri-Parlato-Castellina. Quotidiano unico e insostituibile, con posizioni che a volte mi è capitato di non condividere totalmente, ma che ho sempre rispettato per onestà e correttezza. Uno di quei (pochissimi) mezzi di comunicazione che ti fa pensare ‘meno male che c’è’. E allora, non si può non sostenerlo, anche per i prossimi 50 anni.

Tornando a Seaspiracy, ieri sera l’ho visto e, come nota giustamente l’articolo, mi ha scioccato. Forse perché faccio parte del pubblico ideale per un film come questo: da tempo mi occupo di Agenda 2030, e quindi anche dell’Obiettivo 14, che ci racconta la necessità di salvaguardare mari e oceani.  O forse perché effettivamente la sua comunicazione è forte e diretta, e non può lasciare indifferenti.

Io sono una profonda, autentica amante del pesce. Ho sempre pensato di non poter diventare vegetariana perché non so fare a meno di un buon piatto di pesce. Lo amo in tutti i modi: alla griglia, al forno, bollito con limone e maionese, nei vari sughi con la pasta, nelle innumerevoli versioni di insalate. Lo amo cotto e lo amo crudo, sushi style o anche all’italiana, come ho apprezzato varie volte nelle nostre cucine del sud. Amo molluschi e crostacei, amo lo splendido polpo (anche se a ogni boccone mi fermo a pensare alla sua intelligenza), ma mi piacciono anche i pesci pesci, che mi gusto per intero, se freschissimi testa compresa, e che mi piace pulire, cucinare, spinare. Abitualmente lo consumo due, tre, quattro volte a settimana, anche perché è perfetto per restare a dieta. Però, forse, è giunto il momento di rinunciare a tutto ciò.

Seaspiracy è davvero un colpo al cuore e uno allo stomaco, in tutti i sensi. Questo documentario-inchiesta affronta via via tutti gli aspetti della pesca commerciale, tutte le sfaccettature di un’attività economica che, depauperando gli oceani, ha pesanti conseguenze sulla vita di tutto il pianeta e dei suoi abitanti. Vediamo alcuni dei punti sollevati:

  • l’overfishing non permette la riproduzione delle specie ittiche, compromettendo questa risorsa per il futuro, un futuro molto prossimo,
  • circa metà dei pesci pescati sono catturati e uccisi per sbaglio, perché pesci di scarso valore o non commestibili, ma comunque importanti per le catene alimentari,
  • l’abbondanza di pesci è fondamentale per mantenere in salute gli oceani e i loro ecosistemi: per esempio, anche le barriere coralline si degradano se diminuisce la quantità di pesci che le popolano,
  • la plastica in mare uccide più pesci della pesca; in più, le microplastiche arrivano fino alle nostre tavole,
  • circa metà della plastica dispersa negli oceani è costituita da reti e altro materiale da pesca gettato in acqua: le reti sono particolarmente pericolose per i pesci perché catturarli è il loro lavoro,
  • delfini e altri cetacei vengono uccisi perché diretti concorrenti dei pescatori,
  • in molte parti del mondo i lavoratori sulle navi da pesca sono in balìa (a volte in regime di vera e propria schiavitù) degli armatori,
  • i pirati del Golfo Persico e di altri mari sono in realtà pescatori locali a cui la pesca commerciale ha tolto la principale fonte di sostentamento,
  • negli organismi di controllo che devono garantire la sostenibilità del pesce e la tutela delle specie protette ci sono in realtà grossi interessi delle multinazionali del pescato,
  • l’acquacoltura, che ormai produce metà del pesce che mangiamo, in molti casi risponde alle logiche dell’allevamento instensivo ed è lontanissima da una sostenibilità ambientale,
  • il mangime con cui si nutrono i pesci allevati è comunque un derivato della pesca,
  • gli allevamenti di gamberetti delle zone tropicali crescono a scapito delle mangrovie, foreste protettive dell’ambiente costiero,
  • le aree marine protette coprono superfici esigue, e neanche al loro interno, comunque, è vietata la pesca,
  • il pesce, considerato in genere un alimento sano, in realtà non lo è, o almeno non lo è più: soprattuto i pesci più grandi sono degli accumulatori di sostanze inquinanti,
  • e ultima, ma non ultima, l’estrema disumanità con cui si trattano tutti i tipi di pesce e animali marini, cacciati, pescati o allevati.

Naturalmente, ognuno di questi punti avrebbe bisogno di ulteriori approfondimenti e dati scientifici di supporto. Magari ascoltando diverse voci con opinioni differenti, prestando orecchio a tesi di accusa e di difesa (come si può immaginare molte e potenti sono le voci che si sono alzate contro Seaspiracy). Sarebbe bello, infatti, arrivare a conoscere a fondo tutti i risvolti dell’economia mondiale per decidere che posizione prendere: dalla coltivazione del caffè e del cacao a quella del cotone, dalle fabbriche di abbigliamento in giro per il mondo agli allevamenti intensivi, dalle miniere di coltan al commercio illegale del legname, dal persistere del lavoro minorile alla mancanza di infrastrutture nelle favelas, e così via. Ma anch’io che mi occupo per lavoro di un po’ di tutto questo, scopro ogni giorno nuove frontiere dell’ingiustizia e nuove battaglie da combattere, infiniti fronti, sempre più numerosi quanto più aumenta la consapevolezza dei problemi, da un lato,  e quanto più diminuisce il tempo che abbiamo per risolverli, dall’altro.

Quindi ho deciso di fidarmi. E di fidarmi delle peggiori ipotesi possibili. Perché nel dubbio mi fido dell’ipotesi che mi indica la strada per fare meno male a me, alla mia famiglia, all’umanità, a piante e animali, al pianeta. Nel dubbio credo a chi mi chiede di non compromettere la vita delle popolazioni costiere.  Nel dubbio scelgo di pensare alle prossime generazioni e al loro futuro, impegnandomi per conservare risorse e un bel mondo dove vivere per le mie nipoti. Poi, se sbaglio per eccesso di prudenza (o di urgenza), questo è senz’altro il male minore.

E così, come da tempo non acquisto più polli in batteria, oggetti usa e getta, abiti di dubbia provenienza, cibo spazzatura, ecc., credo che sceglierò di rinunciare anche al pesce. Lo farò gradatamente, forse con qualche ricaduta e successivo pentimento,  lasciandomi anche la libertà di qualche spensierata e golosa eccezione, magari in un ristorantino di fronte al mare.

Ho sempre pensato che se qualcuno mi avesse fatto la domanda “che animale avresti voluto essere?, avrei risposto “il delfino“. Ma nessuno me lo ha mai chiesto. Lo dico allora qui. Bello e possente, intelligente, vitale, una vita in acqua: come potrei non voler essere un delfino? Per questo non sono mai riuscita  a sopportare di vederlo chiuso in scatole di vetro negli acquari o costretto a esibirsi in acquapark e delfinari, una vera barbarie che prima o poi dovrà finire. Un’altra battaglia da affrontare.