Giuseppina e l’eccidio di Solcio

La sponda piemontese del lago Maggiore e tutta la collina che la sovrasta, il Vergante, che è anche il luogo dove vivo, è stata teatro di molti tragici episodi dell’Olocausto e della Resistenza. La strage nazista delle famiglie ebree confinate nell’Hotel Meina, il rastrellamento in Val Grande seguito dalla fucilazione di Fondotoce, dove oggi sorge la Casa della Resistenza, i terribili episodi di Arona e di Mergozzo, l’eccidio di San Marcello (Invorio) e tanti altri.

Una delle peggiori stragi di partigiani fu quella di Solcio, una frazione di Lesa: dieci partigiani vennero prelevati dalla prigione di Baveno e fucilati il 24 marzo del 1945, secondo il macabro rito vendicativo di “10 italiani per ogni tedesco ucciso”.

Proprio l’eccidio di Solcio viene raccontato con gli occhi di una bambina, diventata poi mamma e nonna,  all’interno del libro Le valorose ragazze di Lesa. Storie di donne del Novecento, di cui ho parlato qui. Ecco allora la storia di Giuseppina e dell’eccidio di Solcio.

Giuseppina e l’eccidio di Solcio

“Giuseppina aveva dieci anni e abitava al Solcetto, un gruppo di case appena prima di Villa Cavallini. In quelle case, a metà strada tra il lago e la collina, tra il Sempione e i sentieri che per i boschi portano al Vergante, vivevano alcune famiglie di contadini. Ma in tempo di guerra c’erano pochi uomini, quasi solo donne con i figli.

La casa di Giuseppina condivideva il cortile con la proprietà Sacchi, composta da una grande casa e da molti terreni, pieni di roseti, che andavano dalle ultime case di Solcio alle prime del Solcetto. Avevano il cancello in comune; di fronte, la Villa Forni e poi il lago. C’è una vista, lì, che lascia senza fiato.

Si sentivano spesso, di notte, i rumori della guerra: i partigiani che scendevano a rifornirsi dai contadini, i mezzi militari che passavano sulla strada, le voci di allerta in caso di pericolo, gli altolà dei fascisti e delle SS.

Il signor Sacchi era stato un ufficiale del Regio esercito, ma aveva lasciato la divisa per unirsi ai partigiani. Era ricercato, si nascondeva nei boschi e solo di rado scendeva al Solcetto, dove viveva la sua famiglia.

Nell’inverno del ’44  i fascisti avevano bussato alla porta di Giuseppina, chiedendo alla mamma se conoscesse il Sacchi, se fosse lei ad aprirgli il cancello quando scendeva dai boschi. Nonostante un no deciso, non avevano esitato a caricarle su una camionetta tutte e tre: la signora Sacchi, Giuseppina e sua mamma.

Quella volta era stato solo un grande spavento, per fortuna. Giuseppina si ricordava dei soldati schierati nel grande cortile della caserma di Verbania, delle uniformi, delle armi spianate. Una paura terribile da farsela sotto, ma un soldato gentile le aveva fatto un po’ di coraggio.  Le avevano lasciate andare ed erano riuscite a trovare dei lesiani che le avevano riportate a casa, gente che commerciava in primizie. Si ricordava il volto del padre quando le aveva riviste: era stato tanto in ansia non vedendole tornare.

Si viveva così, sempre con la paura che potesse succedere qualcosa di terribile, anche se, di solito, i partigiani non organizzavano azioni a Lesa. La zona doveva infatti essere tenuta il più tranquilla possibile, perché da lì transitavano i rifornimenti che arrivavano dalla sponda lombarda del lago e che servivano per sostenere gli uomini in montagna.

Il 24 marzo 1945, il sabato prima delle Palme, poco dopo il cimitero di Solcio, sul Sempione spararono a un camion carico di polizia tedesca. Ci furono diversi feriti e anche un morto. Le notizie che circolavano erano scarse e confuse. Nell’immediato non successe nulla, qualcuno addirittura affermò che non c’era stata nessuna azione partigiana. Forse era solo una macabra bravata dei tedeschi che avevano sparato verso la montagna.

E invece, l’azione c’era stata, eccome. Appena fece buio, due autocarri a luci spente, da Lesa procedettero verso Solcio. Nel giro di pochi minuti risuonarono scariche di mitra ed esplosioni di bombe a mano, grida, il frastuono di automobili e autocarri a tutta velocità sul Sempione. Ma in quel momento nessuno sapeva ancora quello che era successo.

‘Per ogni tedesco ucciso, dieci italiani devono essere giustiziati’. I prigionieri erano stati prelevati dall’albergo Bellavista di Baveno, dove era alloggiato il comando nazista, che fungeva anche da carcere per i partigiani e gli ostaggi rastrellati nel Cusio, in Val d’Ossola, nel Verbano e nel Vergante.

I condannati furono scelti tra le formazioni partigiane Valtoce e Redi: il più giovane aveva 17 anni e il più anziano 31. Avevano ucciso anche un giovane di Belgirate, solo perché si trovava fuori casa nel momento in cui passava uno degli autocarri tedeschi.

Il giorno dopo, la Domenica delle Palme, Giuseppina era pronta per la messa. Dalla stradina che costeggia il muro di Villa Forni verso il Sempione, per andare in chiesa a San Rocco, si arriva proprio al vecchio imbarcadero. Senza saperlo, Giuseppina era arrivata esattamente nel luogo dove si era consumata la strage e si era trovata di fronte i corpi ammucchiati dei dieci ragazzi vittime della rappresaglia. Corpi sventrati, massacrati, orrendamente mutilati. La mamma e le altre donne di Solcio non si erano fatte prendere dal panico: erano andate all’albergo Miralago e in tutte le case a prendere lenzuola e tele bianche per ricomporre i corpi straziati.

Bianchi furono anche i vestiti dei bambini che parteciparono alle cerimonie religiose e alla benedizione dei corpi al cimitero di Solcio. Tutto il paese si mobilitò: furono portati i fiori, raccolte le offerte, ricevuti i parenti.

Giuseppina raccontava sempre alla figlia Luisella che non aveva mai potuto dimenticare quei giorni terribili vissuti da bambina. Ricordava lo spavento per aver visto con i suoi occhi un corpo senza testa e l’impressionato stupore per il bianco, per tutto quel bianco.”

La madre dei fratelli Beltrami

Tra i dieci partigiani uccisi nell’eccidio di Solcio c’erano anche tre fratelli, Alfonso, Cipriano e Giovanni Beltrami, tra i venti e i trent’anni, che abitavano sul lago d’Orta. Uno degli episodi più struggenti di cui ho sentito parlare racconta della madre di questi tre ragazzi, che aveva già perso il marito e un altro figlio in guerra. Quando fu permesso dai tedeschi lo spostamento dei cadaveri, la madre caricò i tre corpi su un carretto e, trascinandolo a mano, si arrampicò sulle colline per poi scendere verso il lago d’Orta. Per chilometri e chilometri, passando di paese in paese, gridando il suo dolore raccontava a tutti la triste fine dei suoi coraggiosi ragazzi.

 

Foto di copertina con il cippo che ricorda l’eccidio di Solcio, tratta dal sito OssolaNews.