Volete fare sapere ai vostri nipoti come erano, in molti casi, le scuole delle loro nonne? In questo racconto, tratto dal libro Le valorose ragazze di Lesa, una nonna fa riaffiorare i suoi ricordi di scuola, che ho riadattato in un linguaggio comprensibile ai bambini (ma mi sa che qualche domanda la faranno…).
In quest’epoca di strumenti tecnologici e lezioni a distanza, il racconto della scuola di una volta è una vera e propria lezione di storia.
Ricordi di scuola
La scuola elementare di Lesa 60 anni fa: scale, lunghi corridoi, aule dal soffitto alto, ampi spazi pensati per classi molto numerose. L’edificio ci appariva imponente e incuteva rispetto e severità. Il silenzio e l’ordine davano la sensazione di trovarsi in un posto importante.
Al piano terra, oltre alle aule, c’era un salone che raccoglieva tutti gli alunni. Qui si imparavano i canti che la maestra Giavina ci insegnava. Erano ‘La leggenda del Piave’, ‘Montegrappa’, ‘La Montanara’ e tanti altri, sempre canti di guerra o di montagna.
In fondo al corridoio abitava la bidella Maria con il marito Domenico e la figlia Rita. Era una signora gentile e accogliente e, quando non stavamo bene andavamo da lei a bere una camomilla.
Nei corridoi c’erano file di attaccapanni con tanti cappotti ‘rivoltati’, cioè ricuciti mettendo l’interno all’esterno per farli durare di più, oltre a sciarpe e cappelli fatti dalle mamme. Ai piedi avevamo scarpe risuolate più volte; dentro, calze di lana di pecora che pizzicavano. Sopra ai vestiti portavamo un grembiule nero con un fiocco al colletto bianco.
La giornata iniziava con una preghiera e poi proseguiva con il dettato o il tema o l’aritmetica. In classe c’era silenzio; si alzava una mano per poter parlare e si diceva: ‘Signora Maestra…’
Sul banco di legno c’era un buco con un contenitore per l’inchiostro dove intingevamo le nostre penne con pennino per scrivere. Ma, nonostante i nostri nettapenne di stoffa cuciti dalle mamme, nessuno riusciva a evitare le maledette macchie nere, che erano un incubo per tutti. Cercavamo di cancellare gli errori con le gomme, che però facevano un altro grave danno, il buco nella pagina, e questo era un vero dramma. Male minore, ma sempre nota negativa per il quaderno, era fare le orecchie alle pagine.
Nelle cartelle, quasi tutte di cartone, c’erano il Sussidiario (che conteneva tutto il sapere a nostra disposizione) e il Libro di lettura, oltre a un astuccio di legno con la penna, la matita, le gomme dure e i pastelli di legno per i disegni.
I quaderni, uno a righe e uno a quadretti, erano piccoli: avevano la copertina nera e un’etichetta per scrivere il nome; avevamo anche un album da disegno.
In classe c’era la stufa a legna, rossa di terracotta. C’era la ‘radio per le scuole’ che ci facevano ascoltare con l’altoparlante e noi eravamo molto contenti e interessati.
Non portavamo merende. A mezzogiorno andavamo a casa e tornavamo alle due; il giovedì era vacanza. Tutti andavano a casa a piedi, da soli o in gruppetti, anche quelli che non erano vicini alla scuola.
Ricordo che a primavera le mamme coglievano fiori da portare alla maestra. E la maestra era una sola per ogni classe.
C’era il Patronato Scolastico, un essere misterioso che regalava quaderni ad alcuni bambini.
C’era il Direttore Didattico: si chiamava Grisoni e veniva da Stresa; era grande, grosso e grasso, ma sorridente. Noi comunque ne avevamo timore e lui ci faceva domande a cui noi rispondevamo a fatica.
Una volta all’anno si faceva la gita scolastica, di solito a piedi nei dintorni.
C ‘era il medico scolastico che veniva a fare le vaccinazioni contro il vaiolo. Purtroppo non c’era ancora la vaccinazione antipolio e un bambino della scuola si ammalò e morì in quegli anni.
Io ebbi come insegnante la maestra Giovanna Bertolè in prima e poi la maestra Lucia Gallo. La maestra Bertolè era molto severa. Adoperava la bacchetta sulle mani dei più vivaci, i quali dovevano poi rispondere: ‘Grazie, maestra, che mi correggi’. La ricordo con la faccia triste. Ricordo invece la maestra Gallo come gentile e brava.
In fondo all’aula c’erano i ripetenti, i bocciati, quelli che chiamavano gli asini. Allora non si sapeva che in realtà erano dislessici, oppure avevano altri problemi di apprendimento: oggi sono fortunatamente aiutati dalle nuove tecnologie.
Mi ricordo anche i castighi: per esempio, ci facevano restare dietro la lavagna, oppure scrivere per cento volte una frase. Invece, non ricordo nessun premio.
Oltre ai ricordi di scuola, nel blog potete trovare altri ricordi dal libro Le valorose, per esempio questo legato a un episodio della Resistenza.
Ciao Rossella dal cognome tedesco.
Mi piace il tuo ricordo di scuola e un blog della nonna sul passato
E’ una grande bella idea.
Sembra un romanzo all’italiana e fa rivivere il passato italiano. Io sono di Bari ma vivo a Merano (BZ) in un altro mondo, tedesco, bello ma mi dai nostalgia dell’Italia.
Grazie
Sr. Mariadoria
Ciao Mariadoria, che bello il tuo commento! Nonostante il cognome tedesco, che mi arriva dal mio bisnonno, sono proprio profondamente italiana. E, sì, sono una nonna, ma nel blog non parlo solo del passato, ma anche del presente. Un abbraccio.
È strano come certe cose non siano cambiate per tanto tempo. Alcune le ritrovo nei miei giorni di scuola degli anni ’80. Poi sembra che tutto abbia fatto un balzo in avanti. Chissà cosa racconteranno i bambini di ora, dopo questa prova così inaspettata.
Credo che c’entri molto la differenza tra città e campagna. Io ho più o meno la stessa età della mia amica che racconta i suoi ricordi di scolara a Lesa, ma sono cresciuta a Milano e, anche se la mia era una scuola di periferia, era molto diversa dalla sua, espressione di una società più ‘moderna’. Comunque è vero anche quello che dici tu, gli anni ’80, gli anni in cui sono andati a scuola i miei figli, hanno segnato una vera svolta.
La bellezza ed il valore dei ricordi da tenere nel cuore e nella mente. In questo periodo di covid, ho tenuto da parte alcune auticertificazioni che un giorno vorrei raccontare ai miei figli e nipoti.
Sì, sono convinta che spesso si sottovaluti il valore di quello che si sta vivendo. Invece è importante conservarlo e ricordarlo soprattutto per le prossime generazioni, come dici.